martedì 24 luglio 2018

Lavorare assieme.


I miei genitori si erano conosciuti a Venezia, all'università. Poi si erano rincontrati a Milano, dove tutti e due erano andati a cercare lavoro. Hanno aperto uno studio assieme, e hanno lavorato assieme – nel bene e nel male – per tutta la vita (quando c'era una scadenza importante, tutta la famiglia si attrezzava; noi bambini per tenerci buoni ci portavano a disegnare in studio, con i rapidograf e la carta da lucido, mentre mamma e papà lavoravano) (mio papà ha lavorato fino a una settimana prima di morire – e in ospedale si era portato gli esecutivi di cantiere da correggere; mia mamma a quasi novant'anni va ancora in ufficio, tempera le matite, mette in ordine l'archivio, cose così, per carità, ma insomma.)
Io e mia moglie eravamo già fidanzati quando abbiamo vinto tutti e due una selezione per lavorare in un ente. A dirla tutta, fidanzati sì, ma un po' mi annoiavo: le vacanze, i weekend, le serate fuori con altre coppie, il cinema; dopo un po' non se ne poteva più. Andate a lavorare assieme? dicevano gli altri. Tempo tre mesi e vi lasciate. Come se lavorare assieme, gomito a gomito, nella stessa stanza, fosse la cosa più squallida che si potesse fare. E invece alla fine ci siamo sposati – anzi, ci siamo sposati proprio perché abbiamo lavorato assieme, ci siamo divertiti come dei pazzi, mai più ho visto mia moglie così simpatica, intelligente, capace... non si arrendeva mai, affrontava ogni difficoltà con il sorriso, lì ho capito bene, finalmente e definitivamente, come era fatta. Perché il lavoro (soprattutto se difficile e complesso) è sincero. Quando sei nei pasticci, quando c'è un problema, una scadenza importante che si rischia di mancare, lì si vede veramente come sei fatto, non c'è tempo di fingere (una volta un mio conoscente mi aveva raccontato un bellissimo aneddoto: erano andati con un gruppo di amici a fare un giro in gommone a una caletta isolata raggiungibile solo via mare, una gita in giornata. Ma inaspettatamente durante il giorno il mare era cresciuto, la sera non erano potuti ripartire - erano altri tempi, non c'erano telefonini e previsioni del tempo affidabili. E quindi si erano trovati lì nella caletta bloccati, poco cibo, poca acqua, niente da coprirsi, niente da dormire. Il giorno dopo uguale: mare in tempesta, impossibile uscire. E il giorno dopo ancora. Tre giorni così, senza capire come e quando ne sarebbero usciti. E lì ho capito veramente chi erano i miei amici, dice. Ci conoscevamo da anni, pensavo di sapere tutto di loro. E invece le reazioni sono state inaspettate, qualcuno ha dato fuori di matto, altro sono stati forti. Con qualcuno di loro, una volta tornati a casa, non mi sono visto più; con altri, saremo amici per sempre).
E nella relazioni è un po' così. E' nelle difficoltà che si vede davvero chi sei (nella buona e nella cattiva sorte, si dice... e non perché il ricordo della buona sorte pareggia la cattiva, un bonus da spendere al momento giusto, no, paradossalmente è proprio la cattiva sorte quella che lega di più). Non nella quotidianità (che in fondo è pallosa: comprare da mangiare, pagare le bollette, arrivare stanchi a casa, le malattie e i brutti voti a scuola dei figli, di chi è la colpa; la macchina che si è rotta, i soldi che non arrivano) e neanche (meno che mai) nei divertimenti codificati, standardizzati (i pacchetti seratina romantica, brrr!...): ma piuttosto nelle difficoltà, e nel fare le cose importanti (che quasi sempre sono anche difficili). Anche andare in montagna, per dire, unisce (soprattutto quando ci si perde, cambia il tempo, sta arrivando il buio, c'è un precipizio davanti... oh, come la prendeva facile la mia fidanzata - adesso mia moglie – non si scoraggiava mai.)
E il lavoro oggi come oggi è quasi sempre l'attività più importante e impegnativa che facciamo (non più la politica, non più l'arte...).
Ricordo anche quando mia moglie venne ricoverata in ospedale per una grave malattia – un ospedale di prima linea, dove portavano i casi più disperati e più urgenti d tutta la città, quelli che gli altri non riuscivano a risolvere – e lì lavoravano due medici, marito e moglie, e si davano il cambio nelle emergenze, si incrociavano stravolti al mattino, lo sguardo perso, i capelli sporchi, ricordati che c'è da prendere il latte, faceva uno, chi è che va prendere il bambino all'asilo oggi? diceva l'altra. Io lo trovo bellissimo. E non a caso ce la mettevano tutta, sul lavoro, mica puoi fare una figuraccia con la persona che ami, e quando alla fine la vecchina, simpatica e carina, del letto di fianco alla fine non ce l'aveva fatta, be' il dottore era davvero affranto e distrutto (non venga mai il giorno in cui non si soffre per la sorte di un tuo paziente... diceva il giovane Bulgakov quando faceva il medico). Secondo mia sorella (che fa anche lei il medico in ospedale), tutti quelli che lavorano lì hanno un amore sul posto di lavoro. Magari sono sposati con altri, ma è normale, si salvano le vite assieme, tutti ma proprio tutti hanno una storia. Anche tu? (lei è cattolica fervente) No, io sono l'unica (chissà se è vero – ma a fianco c'è suo marito – peraltro un suo ex paziente, e quindi vedi).
Ma c'è qualcuno a cui questa cosa non piace.
Ovviamente, appena io e mia moglie ci siamo sposati, venne un nuovo dirigente e come prima cosa disse: uno al quinto piano, uno al terzo, uno a seguire una cosa, uno un'altra. Non sia mai che due sposati lavorino assieme (che banalità). Da allora (inutile dirlo), va un pochino peggio in entrambi i casi, il lavoro mi stufa e mi stanca, la vita famigliare anche. Perché allora questa idea di tenere separati il lavoro e i sentimenti? Un tempo si sarebbe detto che è per la “logica del padrone”. Meglio che i dipendenti non si conoscano. Meglio che non fraternizzino, che non ci siano legami fra di loro: così sarà più facile sottometterli, licenziarli nel caso, senza che nessuno li difenda; sarà più facile ottenere da loro comportamenti servili e malvagi, tanto non li vede nessuno. E alla sera, finito il lavoro, l'impiegato chiude la porta e torna a casetta sua, dove lo aspettano la sua mogliettina e i suoi bambinetti... nessuno sa quali infamie e nefandezze ha dovuto commettere durante il giorno per salvare il posto. Se invece sua moglie fosse lì... se lo vedesse... forse se ne sarebbe vergognato (anche nei campi schiavisti era così, e anche nei codici di comportamenti delle grandi società americane, vietato fraternizzare...).
Ma quello che si capisce di meno è il comportamento di chi ha interiorizzato questo diktat, e che quindi separa disciplinatamente vita e lavoro. Ricordo una segretaria in uno studio dove avevo lavorato da giovane, e che non degnava di uno sguardo i ragazzi che lavoravano lì con lei; poi una volta al mese andava ad Ibiza, ballava tutta la notte e andava a letto con qualcuno che aveva conosciuto lì per lì – lei si riteneva una libera e disinibita, secondo me era una frustrata. Non sarebbe stato meglio fare ogni tanto un sorriso a chi lavorava lì con lei?
Capisco, per carità: così non capita che l'amante del capo, bella ma stupida, faccia più carriera di una brava (ma nella mia esperienza succede piuttosto il contrario, quella brava i capi se la tengono stretta, e magari finiscono pure per amarla, le stupide – ancorché belle – dopo un po' invece scocciano). E in questo modo non capita nemmeno, se ci si lascia, di perdere in un colpo solo amore e lavoro (ma chi può essere così crudele? Certe persone meglio perderle comunque, non bisogna avere paura). E capisco in verità anche il fascino degli amori a distanza, le donne misteriose, i fidanzati lontani: avvolti in un'aura di mistero e quindi di fascino; fascino che, guarda caso, scompare appena ci si avvicina di più, si mette su casa assieme, e si scopre che sono come tutti gli altri, con le ciabatte, il pisolino, la tosse, i malumori... (come certi pesci abissali meravigliosi, che portati alla superficie diventano grigi e flaccidi).
Ma anche ai giornaloni piace questa idea balenga della separazione vita-lavoro. Si parla tanto di “tempo liberato”, ovvero più percentuale di tempo da dedicare allo shopping, all'entertainment, ai weekend romantici, ai viaggetti nelle città d'arte, ai gadget informatici, insomma a tutta quella paccottiglia di cagate che ci offrono per dimenticarci che facciamo un lavoro di merda.
Non sarebbe meglio invece lavorare meglio?
In montagna, in una valletta laterale poco frequentata, nel maso che ci ospita, una ragazza (il padre è malato e non lavora più, la madre è vecchia) ci mostra come accudisce le mucche. Quando sono in estro le facciamo incontrare il toro, niente fecondazioni artificiali. E il vitellino lo facciamo incontrare con la madre, ed eccolo lì che ruzza fuori dalla stalla e corre alla staccionata dove c'è la madre, che se lo lecca e se lo bacia tutto. Be', è già qualcosa. Immagino che così si ottenga un latte più buono e della carne migliore, faccio io. No, no: perché è giusto così.


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