di Hermann Melville
Ai suoi tempi, era stato il suo libro più famoso, quello che gli aveva dato notorietà e successo (Moby Dick invece allora non se lo filò nessuno).
In breve, la storia (autobiografica, è quello che successe veramente a Melville quando faceva il marinaio) è quella della sua diserzione da una baleniera in viaggio nei Mari del Sud e della sua fuga nella parte più ignota e più pericolosa dell'isola: quella abitata da tribù selvagge e (si diceva) antropofaghe, cannibali insomma. Che invece sono civilissimi, lo accolgono con piacere, lui si sistema con una ragazza senza problemi. Le usanze sociali sono poi quanto mai aperte, e lui le osserva con stupore e meraviglia: gli indigeni non si fanno problemi ad amarsi, non sono però promiscui o approfittatori, solo ad esempio è normale che in una famiglia se il padre si innamori di una ragazza, questa venga accolta senza problemi in casa; e così anche la madre, se è innamorata di un giovane, lo frequenta liberamente. E via così, con Melville sempre più stupefatto: davvero si può vivere così felici? Lontani dalle brume e dalle costrizioni della Nuova Inghilterra?
Ma prima o poi la nostalgia si fa troppo forte, e quindi a un certo punto tradisce la fiducia dei suoi ospiti e scappa di nascosto, tornando nel mondo civilizzato.
Libro fondamentalmente libertario, e per questo di grande successo. A ulteriore conferma di quanto dirà poi Norman Lewis: non c'è mito più reale e verificato di quello del buon selvaggio. Nel senso che non è un mito, è quello che c'era veramente (e che noi abbiamo distrutto).
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