Ero un ragazzino, andavo alle medie. Una mattina mi svegliai con un dolore terribile all'alluce del piede: era tutto rosso e pulsava. Mia mamma chiamò al telefono la nostra dottoressa di famiglia, che riflettuto un po' sulla cosa, disse: mah, sembrerà strano ma secondo me è gotta. Di solito viene agli anziani che mangiano troppa selvaggina, tipo i Lord inglesi, ma a me sembra quello. Non dategli più prosciutto o cose simili, che fanno male.
I miei genitori un po' preoccupati per quella malattia insolita mi fecero vedere da un famoso specialista, un insigne primario di pediatria del principale ospedale di Milano. Dopo avermi visitato, mi disse di tornare in anticamera, che doveva parlare con i miei genitori. Mentre ero lì che aspettavo, sbucò dalla porta l'infermiera a guardarmi, con aria compassionevole. In macchina i miei al ritorno erano molto agitati: domani verrai ricoverato in ospedale – ma perché? Perché sì e basta, niente discussioni, devi andare e basta.
La mattina dopo appena arrivato in ospedale mi portarono subito a fare un elettroencefalogramma, con la terrina fra i capelli sotto gli elettrodi, e mi chiedevo: questo cosa c'entra con il piede? Poi radiografia alla testa, poi mi misero dentro un tubo, insomma tutta una serie di esami che sembravano non finire mai.
Sì perché, come seppi anni dopo, il famoso luminare aveva escluso che si potesse trattare di gotta – figurarsi! - e mi aveva diagnosticato invece un tumore al cervello, con poche speranze di sopravvivenza.
Ma gli esami non mostravano nulla, dove si nascondeva quel benedetto tumore? Alla fine, sconfortato, il luminare fece un'ultima prova: mi diede da mangiare cibo ricco di purine (quelli che fanno venire l'attacco di gotta) ed ecco subito che il piedone ricomincia a pulsare! Insomma era giusta la diagnosi fatta dalla dottoressa di famiglia al telefono. Solo, da mangiare non mi avevano dato il prosciutto, a cui agognavo, no, ma il cibo più ricco di purine che c'è: un cervello di vitello, lesso, preparato dalle cucine dell'ospedale – forse la cosa più schifosa che abbia mai mangiato in vita mia. Ma da lì in poi la situazione si rasserenò.
Lì in quel reparto dove mi trovavo erano tutti bambini malaticci, un po' deformi, grigi, con i genitori che venivano a trovarli con il magone. E mi ricordo un giorno che mi avevano portato nel sotterraneo a fare un esame, assieme a me c'era un carrello tutto pieno di bimbetti malaticci che si lamentavano e frignavano. L'infermiere spazientito li prendeva a male parole: zitti, o ve la faccio vedere io! E una bimba già un po' grandicella – avrà avuto tre o quattro anni – e con la pelle grigia aveva iniziato a carezzare e consolare i bimbi più piccoli attorno a lei.

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