Secondo Harari (e molti altri) nella
modernità il bello (e il vero e il giusto) è quello che è
accettato come tale dalla comunità di chi si occupa di quelle cose.
Non c'è insomma – come sappiamo tutti – un criterio oggettivo
(“è bello ciò che è bello”), ma piuttosto soggettivo (“è
bello ciò che piace”, sottintendendo: alla maggioranza di quelli
che ne capiscono qualcosa).
Dietro questa opinione (peraltro
diffusissima) mi sembra ci sia però il rischio dell'accademia. Non
più dell'accademia muffosa di un tempo, ma magari di quella dei
tavolini e dei vernissage, sempre in evoluzione (e in realtà sempre
simile a sé stessa): la cosiddetta comunità degli “esperti”. Si
va quindi a degli incontri per capire cosa va. Più alto ed esclusivo
il livello degli incontri a cui si partecipa, più aggiornato il
gusto – fino a quando alla fine nessuno capirà più cosa si
volesse fare, è tutto un dialogo interno autoreferenziale: e se alla
mostra non si avvicinasse premuroso il commesso a sussurrarti il
significato dell'opera, nessuno ne capirebbe nulla.
Mi piacerebbe capire cosa distingua
alla lunga questa atteggiamento dalla tanto vituperata accademia. È
invece un'idea di bello (per quanto fragile, inconsistente e
immotivata) che ci dovrebbe guidare.
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