martedì 27 luglio 2010

Il boccone avvelenato.

Da una parte, sono decine di migliaia di anni che ci occupiamo e ci emozioniamo delle stesse cose: l’amore, la nascita di un bambino, la morte di persone care. Stesse cose, eppure ogni volta è diverso.
Dall’altra però si allarga il cerchio delle cose che si sanno. E si sanno perché vengono raccontate: come il topino che ha assaggiato per primo un nuovo cibo - sarà veleno o roba buona da mangiare? - chi è sopravvissuto ritorna e lo racconta agli altri, per aiutarli ad affrontare anche loro quella cosa nuova (a questo serve il racconto: svelarsi a sé stessi, per tornare alla realtà più pronti. Come in Dante, dove come insegnano al liceo il disiato riso serve a scoprire la ben più fisica bocca, da baciare tutto tremante, e da quel dì ci credo che più non ne leggemmo innante, meglio le bocche dei libri, per quanto galeotti, grazie).
E dunque qual è il confine da esplorare? Quello delle cose che non si conoscono, e di quelle che fanno paura. E quindi anche se facciamo le stesse cose da decine di migliaia di anni, non basta la solita strada. Bisogna rischiare di inghiottire il boccone avvelenato, lì sul limite della zona illuminata.

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