Da una parte, sono decine di migliaia di anni che ci
occupiamo e ci emozioniamo delle stesse cose: l’amore, la nascita di un
bambino, la morte di persone care. Stesse cose, eppure ogni volta è diverso.
Dall’altra però si allarga il cerchio delle cose che si
sanno. E si sanno perché vengono raccontate: come il topino che ha assaggiato
per primo un nuovo cibo - sarà veleno o roba buona da mangiare? - chi è
sopravvissuto ritorna e lo racconta agli altri, per aiutarli ad affrontare
anche loro quella cosa nuova (a questo serve il racconto: svelarsi a sé
stessi, per tornare alla realtà più pronti. Come in Dante, dove come insegnano
al liceo il disiato riso serve a scoprire la ben più fisica bocca, da baciare
tutto tremante, e da quel dì ci credo che più non ne leggemmo innante, meglio
le bocche dei libri, per quanto galeotti, grazie).
E dunque qual è il confine da esplorare? Quello delle cose
che non si conoscono, e di quelle che fanno paura. E quindi anche se facciamo
le stesse cose da decine di migliaia di anni, non basta la solita strada. Bisogna
rischiare di inghiottire il boccone avvelenato, lì sul limite della zona illuminata.
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