Anni prima, da bambino, ero andato una volta all'aeroporto ad aspettare una zia che tornava da Seattle. “Seattle”: splendido suono.
Dentro c'è tutto: gli altoparlanti degli arrivi, le vetrate della terrazza, il fragore degli aerei, il vento e il sole che spazzava la pista, l'oceano che dicevano aveva superato, i regali strani della zia giovane che torna da una borsa di studio, oggetti con strani odori e strani sapori che ci seguirono fino a casa, pezzettini di “seattle” che catturarono la nostra attenzione per mesi senza confondersi mai con gli oggetti soliti di casa, abituali, rassicuranti, quotidiani.
Se devo dire qual'era la parola che ci avrebbe travolti, secondo la professoressa leggendaria, ebbene doveva essere qualcosa di simile.
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