Letteralmente: luoghi comuni. Ovvero
strutture tipiche, facilmente riconoscibili dal lettore, rassicuranti
e quindi più immediatamente comunicative. Ma il grande scrittore è
quello che li utilizza per fare il salto di qualità: si parte da
qualcosa di noto, poi lo scatto che fa passare da un buon testo a un
testo geniale.
Ad esempio: tutti conosciamo il topos
del giovane medico, fresco di studi universitari, che viene spedito
in una qualche modesta condotta di campagna, dove si trova di fronte
all'improvviso alla dura realtà della sofferenza, del rischio, la
paura di non farcela, la diffidenza dei paesani, affezionati al
vecchio ed esperto predecessore: eppure fra battiti di cuore, ripassi
affannati dei libri di scuola, generosi consigli della vecchia
infermiera, ce la farà. Il paziente dato oramai per morto si
risolleva, fra le lacrime e la commozione di tutti. È
il meccanismo tipico ad esempio delle storie del veterinario inglese,
quello delle creature grandi e piccole e delle cose sagge e
meravigliose, centinaia di storie (gradevoli) tutte più o meno
uguali.
Ed è anche lo schema che usa il
giovane medico Bulgakov per il suo primo libro, appunto “Memorie di
un giovane medico”. Per i primi tre racconti (gradevoli) va tutto
secondo lo schema: il paesello dimenticato da dio dove è stato
mandato, le sofferenze, le ansie, le riletture, i consigli, e alla
fine le guarigioni miracolose e la gratitudine dei salvati. Poi a un
certo punto lo scatto, il salto di qualità del grande scrittore.
Il racconto è “La tormenta” (o “la
bufera” in altre traduzioni). Siamo nell'inverno del '17. Una
grande bufera di neve scuote la pianura russa. Il giovane dottore se
ne sta pigramente rintanato nella sua casetta, ben contento che non
lo chiami nessuno. Ma ecco d'improvviso che viene chiamato di notte
in un distretto lontano: una ragazza ha avuto un incidente proprio
nel giorno delle sue nozze, sta morendo, il dottore deve accorrere:
con un lungo viaggio in slitta nel buio arriva alla casa, il
fidanzato piange disperato nella stanza accanto. E qui c'è la prima
rottura del topos: il medico, nonostante gli sforzi, non ce la fa. La
fidanzata muore. Decide quindi di tornare a casa, nella notte, in
slitta, dove cade nel sonno. A un certo punto il vetturino lo chiama,
hanno perso la strada. Sono fermi, nel buio, i cavalli affondano
nella neve. E all'improvviso i cavalli si muovono, riprendono a
trottare, bene, avranno trovato la strada, pensa, si sdraia di nuovo
giù nella slitta. Ma nel dormiveglia gli sembra di sentire di nuovo
i lamenti del fidanzato, lì nel nero della notte. E lì fuori nel buio (e nel
sonno) gli sembra come di scorgere un gatto nero che balza, lì
davanti. No, anzi, i gatti sono due. Sono tre. Quattro. Sono lupi! La
slitta vola, e riesce finalmente a raggiungere casa.
Qui finisce il racconto. Ma pensiamoci
su un po'. Qui ci sono alcune cose che parlano di altre cose: c'è
una fidanzata amatissima ferita a morte; e c'è una bufera dentro cui
i lupi sono pronti a scatenarsi. Inverno 1917 - la bufera - arriva la guerra civile. Ed ecco che il topos – il banale topos – è diventato
qualcos'altro: la rappresentazione potente di un momento storico.
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