La città vecchia, affacciata lungo una stretta linea di terra fra una marina e l'altra, è davvero deliziosa. Le ville storiche recuperate, maestose, la penisola finale tutta verde; sullo sfondo, il monte di Portofino.
La parte interna oltre la ferrovia è invece più nuova, caotica, e un po' povera.
Quindi c'è una parte di lusso, che vive di turismo, sostanzialmente alle spalle di milanesi ricchi da affascinare; e una un po' che si arrabatta. Per cui, pur venendoci da tempo, non ho in verità mai fatto vere amicizie lì. Il loro sogno è improvvisare la levata d'ingegno, indovinare il trucco che li farà ricchi e nullafacenti: l'arredo giusto del locale, lo stile alla moda, i cocktail che non fa nessuno, il barista dall'aria esotica, quelli giusti che entrano gratis, gli altri che si accalcano strapagando un bicchiere: è questa la formula del successo lì, quel certo non so che, novanta per cento fuffa, fuffa che però ti tira fuori dalla città oltre la ferrovia (nelle cittadine vicine invece, certo più bruttine, il successo invece è se fai cose buone a buon prezzo, tanto lavoro, tanta qualità, cose fresche, buone ricette, per dire). Lì no, non c'è poco o nulla di veramente buono, scena e immagine più che altro – ma se non l'indovini non sei nessuno. Per cui, posto piacevole, ma pochi legami veri.
In realtà, una volta ho avuto una storia con una di lì. Lei era una di famiglia molto povera, il papà – che doveva essere stato uno davvero particolare – sembra che fosse uno molto simpatico, bello, buono, gli piaceva giocare con i bambini, con gli amici, cantava benissimo, sapeva raccontare bellissime storie: ma lavorare quello no, non gli riusciva, erano sempre senza soldi, ma proprio senza. E anche la mamma doveva essere stata una bella donna da giovane, figli ne avevano avuto uno dietro l'altro, sei alla fine, ma insomma il punto era sempre quello, soldi zero, ma niente davvero. Per un lungo periodo addirittura avevano vissuto di beneficenza pubblica, patronati, assistenza sociale, a un certo punto avevano parlato anche di allontanare i bambini dalla famiglia, metterli in collegio o darli in affido; ma non se ne era fatto nulla. D'improvviso, era morto il papà, poco più che cinquantenne; e così lei a diciassette anni era andata a fare la commessa in un negozio di gioielli nel carruggio del centro storico, lì dove si affollavano i milanesi miliardari. In poco tempo era diventata l'amante del titolare del negozio: lei belloccia, simpatica, spavalda, alta, magra, belle tette; lui cinquantenne (l'età del padre), brizzolato, abbronzato, l'auto decappottabile, i viaggi in giro per il mondo a comprare pietre preziose.
Era durata una decina d'anni, poi un giorno lui l'aveva scaricata: sei ancora in tempo a farti una vita tua, lo sai, non l'avrebbe mai sposata. Scaricata per raggiunti limiti di età. Allontanata dal mondo magico della città-bene, dove le era sembrato di trovarsi a posto.
Si era messa quindi ad andare a letto un po' con tutti, forse per recuperare il tempo perduto dei suoi diciassette anni. Io allora ne avevo diciotto (dieci meno di lei) e aveva fatto tutto lei, mi aveva preso e portato a letto, sai a lui non piacevano i preservativi, voleva farlo solo in bocca e in culo, per cui capisci con la figa sono un po' a disagio. Iniziò a scrivermi lettere tutti i giorni, lettere di quindici pagine, che dopo un po' neanche leggevo. Smisi di risponderle, la cosa finì lì.
Ci siamo rincontrati una volta per caso in stazione, lei era affacciata a un finestrino del treno, io sulla banchina con mia moglie. Lei con uno scozzese tutto rosso di barba e di capelli, me lo presentò come il suo fidanzato. Poi il treno partì e non ci vedemmo più.
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