mercoledì 11 agosto 2010

Sergei Nabokov

Leggendo “Parla, ricordo” di Vladimir Nabokov, a un certo punto ci si chiede: ma perché lo zio lascia in eredità tutto a Vladimir, e niente a suo fratello Sergei, così incredibilmente simile a lui, solo un poco più piccolo? Sergei che in fondo era l’unico ad aver imparato a memoria e a suonare le romanze composte dallo zio, mentre Vladimir le irrideva sprezzante? E come mai Vladimir è così insofferente nei confronti del fratello, “piccolo gufo”, sempre impacciato, goffo, che lo guarda di nascosto ammirato? E perché a un certo punto dice semplicemente che “ora è morto”, senza dire che è stato perseguitato dai nazisti e infine ucciso di stenti in un campo di concentramento (mentre lui fuggiva in America a diventare uno scrittore famoso)? Solo alla fine del libro lo riporta, con grande fatica.
Come sono diversi i due fratelli, uno forte e sportivo, l’altro debole e affettato, uno bravo con le parole, l’altro addirittura balbuziente; uno fiero di non capire niente di musica, l’altro invece che l’amava appassionatamente; uno di successo, duro e beffardo, l’altro infelice e dimenticato. Alfa e omega, insomma (anche se non credo che Vladimir avrebbe apprezzato questo tipo di considerazione). Ma anche così simili, due facce di una stessa medaglia.
Ma Vladimir non ne parla praticamente mai. Parla invece tanto, minuziosamente, ossessivamente, di farfalle, sempre di farfalle, di quando è solo nel bosco a caccia di farfalle. 

(Ma senza questa sua durezza non avremmo conosciuto neanche la fragilità del fratello)
Sotto i portici deserti, un ambulante slavo suona la fisarmonica, una canzone struggente, poco conosciuta, con grande passione. Fuori piove, fa freddo, non lo sente nessuno.

(per maggiori informazioni sulla vita di Sergei Nabokov si può leggere qui un articolo di Lev Grossman)

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