mercoledì 10 marzo 2010

Guerra e strategia nell’età contemporanea.

AAVV (Marietti)
Un tempo, la cultura di base di un rappresentante medio della classe dirigente comprendeva, oltre alle solite nozioni di storia, geografia, matematica e lettere, anche una qualche conoscenza di arte militare.
E non c’è da stupirsi: per millenni, uno dei compiti principali di ogni organizzazione umana, importante quasi come quella di nutrirsi, era quella di difendersi (o di attaccare). E non ci si poteva permettere di essere meno che perfetti: se non eri abbastanza pronto, attrezzato e aggiornato, quello che ti capitava era banalmente di vedere i tuoi beni depredati, le tue donne violentate, i tuoi figli uccisi, e di finire a fare lo schiavo da qualche parte. Non era un’esigenza da sottovalutare. E per secoli quindi le menti migliori si sono dedicate a studiare e affinare questa attività, per noi (molli e superprotetti esponenti della modernità) oramai un po’ desueta. Concetti come tattica e strategia, ruolo del caso e scelta del terreno, importanza della logistica e dell’umore degli uomini; la definizione dei rapporti fra comandanti politici e militari, le forma organizzative piramidali o finalizzate a uno scopo, la tecnologia “friendly”: tutto quello che fa parte del bagaglio conoscitivo di un’organizzazione moderna è stato prima attentamente studiato, valutato e accuratamente limato secoli fa da chi si occupava di cose militari.
Ed è sorprendente scoprire la loro capacità di guardare il futuro. A un congresso di Chicago nel 1893 (quindi diversi anni prima dello storico volo dei fratelli Wright) un anonimo partecipante proponeva quello che poteva essere il ruolo e la strategia di una futura forza militare aerea: attaccare immediatamente e con forza la flotta aerea nemica nelle sue basi (un po’ alla Jomini, tanto per intendersi), in modo da avere il predominio dei cieli e da lì proteggere le operazioni di terra. Ovvero la tattica usata poi dagli israeliani nella guerra dei sei giorni del 1966 (quando si dice la lungimiranza). E alla fine dell’800 un americano, Mahan, riuscì finalmente a capire e a descrivere i motivi di successo della flotta inglese nei secoli: la relazione con i commerci marittimi, la posizione geografica, le caratteristiche della popolazione, l’alleanza con eserciti continentali. E questo bastò ad un inglese, Mackinder, per capire subito che quell’epoca era finita per sempre, a favore delle superpotenze continentali (tipo l’America). Ma anche il generale prussiano Moltke, che ampliando le responsabilità di raggiungimento degli obiettivi anche ai ranghi inferiori, pose le basi per la straordinaria efficienza dell’esercito tedesco durata quasi un secolo. O la valutazione che le guerre rivoluzionarie “di lunga durata” del terzo mondo si sarebbero esaurite con l’inurbamento delle popolazioni contadine. O la capacità di esplorare in anticipo scenari di guerra anche inverosimili (fra le due guerre mondiali, il comando inglese elaborò piani anche nel caso di conflitto con 
gli Stati Uniti o con la Francia - piani peraltro che tornarono utili per lo sbarco in Normandia).
Oggi nessuno se ne interessa più. Non che la materia sia diventata di minore importanza, ma di fatto è stata delegata a pochi esperti. Nessuno discute più se l’avanzata delle ali debba essere accompagnata da una leggera pressione sul centro di uno schieramento, nessuno legge più libri sull’argomento. Qualcosa è rimasto nelle discussioni sul calcio.

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