mercoledì 11 novembre 2009

Ceronetti a Venezia (ovvero: tramezzini)

Per i miei genitori, essere andati all'università a Venezia negli anni '50 ha voluto dire uscire per la prima volta di casa, conoscere gli artisti e gli architetti famosi (con cui si sono fatti fotografare), vedere (almeno di lontano) un ambiente internazionale e glamourous; in un altro senso, prepararsi a diventare élite e classe dirigente.
E' il momento più bello della loro vita, e rimarranno sempre affezionati a quei luoghi, a quei sapori, a quelle cadenze e a quelle usanze; ai loro aneddoti storici (la stanza da letto da studenti con le finestre pulite, pulitissime: senza vetri! in pieno inverno! i marinai americani ubriachi che si picchiano selvaggiamente sul selciato scivoloso delle Procuratie Nuove, l'aspirante giovane pittore che appende il suo quadro alle Gallerie dell'Accademia e voleva portarsi via un originale, quello che aveva conosciuto Peggy Guggenheim, il viaggio in Grecia, ecc., ecc.).
Vado oggi e la loro storica osteria della Madonna (vicino a Rialto) è diventata un posto per turisti. Tramezzini e pizzette vicino a S. Marco, mille tipi, tutti uguali. E intanto uno pensa: sono dove Byron, dove Wagner..., dove Ruskin... E io cosa faccio? Qualche pensiero originale, tipo: “Venice? Just a lot of water, ah ah ah ah” (commento di giovane americana).

E ad Amsterdam? Bar bui e uno spinello. E a Parigi? E a Berlino, a Stoccolma, a Roma? Picasso, Hemingway, gli impressionisti; Kerouac, Primo Levi e la Shoah. Hermann Hesse? Fuori moda. Cibarie rimasticate, finte scelte, mille sapori, tutti uguali.
E una volta che sono andato a Venezia per lavoro (mi chiedevo: come sarà? venire qui per un motivo, con un obiettivo, non solo a perdere il tempo o a guardarmi in giro, ma con qualche cosa da fare) sono tornato a casa presto, era lo stesso.
Ma perché “Ceronetti a Venezia”? Perché mi vergogno a dire che tutto questo rimpianto è il mio.


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