Ci siamo conosciuti ad Architettura.
Mi era sembrato uno un po’ esagerato, troppo frenetico, ambizioso; ma
tutto sommato abbastanza in gamba (facevamo la tesi con lo stesso
professore, uno serio, esigente, selettivo – ci sentivamo un po’ un’élite).
Poi ci siamo visti a Sestri, dove era nato. Ho conosciuto sua mamma,
suo fratello, suo nonno e suo bisnonno. Siamo andati in collina dove avevano l’uliveto,
mi ha raccontato di quando andava di notte con la barca dei pescatori (non
tutti erano ammessi), di quando andava di corsa sulle colline fino al liceo a
Chiavari. Ho pensato, in gamba, ma un po’ fanatico.
Poi ci siamo visti alla laurea. Faceva il fotografo adesso, di
montagna. Ho pensato: un po’ fanatico. Troppe cose in pentola, troppe
ambizioni. Troppa attenzione a sé, a raccontarsi. Poi ci siamo visti ancora a
parlare di montagna (anch’io ci andavo). Si era trasferito in Valpelline, faceva
la guida alpina, dove c’era un bivacco dedicato a mio zio, morto sul Badile. Poi
non ci siamo visti per molto tempo.
Un giorno leggo sul giornale di questa iniziativa, un alpinista
valdostano (ma ligure in verità), che insegnava agli afgani a sciare. Era un’iniziativa
dell’Aga Khan, per portare benessere nelle valli, ma si era trasformata anche
in qualcosa d’altro, insegnava ai medici a sciare d’inverno, quando le strade sono bloccate, per andare comunque in giro a
curare i malati, e poi i sistemi antivalanga, per permettere ai bambini di
andare a scuola con la neve. Era lui. Ho pensato: ci voleva proprio un
fanatico, per fare una cosa del genere. A una persona normale non sarebbe
venuto in mente, bisogna essere un po’ dei pazzi fanatici, ma matti e basta è un po’
triste, però non lo è più se fai qualcosa di speciale come questa.
Quando è venuto a Milano per raccogliere fondi per la sua iniziativa,
sono andato. In gran forma, abbiamo chiacchierato allegramente un po’: i figli
che studiavano all’estero, forse un settemila in Afghanistan il prossimo anno.
Bravo, bravo davvero, gliel’ho detto anche, complimenti.
Adesso è disperso sul Bianco, senza speranza. Ma quel che è peggio, con
un giovane cliente, un ragazzo di quindici anni. Erano partiti per la cima anche se minacciava una forte nevicata.
Forse
sono precipitati (c’è quasi da sperarlo), legati alla corda in conserva, il ragazzo
che inciampa. Ma forse invece la nevicata era troppo forte, e sono morti
assiderati assieme, accucciati, sapendo che non ce l’avrebbero fatta.
Ed è la cosa peggiore che possa succedere ad un alpinista: non riuscire
a proteggere quello più debole che ti è stato affidato. Ed è il peggiore modo
di morire: pensando che così non sarai più un eroe per i tuoi figli, per i tuoi
amici, per i tuoi cari, sei solo una testa di cazzo, uno che ha messo nei
pasticci un ragazzo perché ha sbagliato le valutazioni, l’Afghanistan non conta
più niente, sei solo uno che ha sbagliato, che ha rischiato stupidamente e ha
fregato quelli che si erano fidati di te.
Che
dire? Fermati, finché sei in tempo. Non ci saranno gli sguardi
attoniti, non ci saranno le urla della sorellina nel parcheggio. E altrimenti invece - un abbraccio forte a voi due lassù sotto la neve.
Ricordo questo fatto, ho pensato la stessa cosa, un adulto non può trascinare un ragazzo nelle sue sfide personali.
RispondiEliminaHo letto anche altri post. Ritornerò, grazie