martedì 4 maggio 2010

Milano.

Come iniziano le città? Non è una domanda scontata. Siamo abituati a viverci, nelle città, a vederle crescere o cambiare, o restare così come sono o piano piano degradarsi e finire. Ma al momento dell’inizio non c'è più nessuno che c’è stato.
E la prima domanda è: da dove è nata l’iniziativa? E perché in un luogo, piuttosto che in un altro? Forse qualunque luogo andrebbe bene?
Di solito, nascono in un luogo di incontro naturale: allo sbocco di una valle, all'attraversamento di un fiume, attorno a un'insenatura che possa servire da porto; oppure come presidio militare di un percorso, o di una regione fertile.
Questa città invece non ha nessuna di queste cose: non ha un fiume (l'hanno fatto dopo, artificiale), non ha un porto (idem), non ha una collina (ci hanno tentato), una valle, un passo da presidiare.

Semplicemente, è una città in mezzo a tante cose. Anche il nome, dicono, viene da lì. E' a metà strada fra le montagne e il mare; a metà fra il Nord Europa e il Mediterraneo, fra i porti industriali freddi e nebbiosi e il sole e il mare azzurro; fra l'Occidente proteso sull'Atlantico e l'Oriente che si spinge verso l'Asia. Più modestamente, a metà fra l'Ovest sabaudo e l'Est veneziano. A metà fra il Ticino e l'Adda, fra i laghi subalpini e il Po.
Certo, e allora, perché proprio qui? Perché non un po' più in là, un po' più a Est o un po' più a Ovest? Avrebbe potuto benissimo essere così, e l'esistenza di Monza e di Pavia, città capitali mancate, ci mostra che c'è mancato poco. Ma più a Nord o più a Sud non avrebbe potuto essere: perché più a Nord la pianura è inadatta all'agricoltura, è argillosa, impermeabile, l'acqua corre via, e si riesce a coltivare qualcosa giusto per sopravvivere; più a Sud invece l'acqua salta fuori immediatamente, ottimo per l'agricoltura, ma non si riesce quasi a costruire, e se non viene incanalata, il terreno è paludoso (e quando con l'aereo a primavera si inizia a scendere sulla pianura per atterrare, sembra quasi di arrivare su un lago, con le risaie inondate e qua e là le cascine che spuntano). In termini tecnici, a Nord si parla di pianalto ferrettizzato (ottimo per fare i mattoni), al di sotto del quale c'è un lago di acqua di falda; dove termina il pianalto, l'acqua finalmente può sgorgare fuori: è la linea delle risorgive, da Est a Ovest, dove basta piantare un tubo cavo nel terreno per fare sgorgare l'acqua e avere un fontanile.
A Nord, il terreno gramo non favorisce le grandi proprietà; gli appezzamenti agricoli sono frammentati fra tanti, coltivatori, mezzadri, piccoli proprietari; e nelle notti d'inverno ci si industria con altre attività integrative, per tirare a campare: metallurgica, tessile - l'acqua che scende abbondante dalle montagne fornisce attraverso i mulini l'energia per far girare le macchine.
A Sud invece l'acqua tiepida che sgorga dai fontanili viene raccolta e irregimentata lungo le rogge alberate fino alle marcite, mantenendo la stessa tiepida temperatura anche d’inverno grazie alle radici degli alberi; questo permette di avere erba fresca in tutte le stagioni, fornendo nutrimento migliore alle vacche che così producono più latte, che diventa formaggio, tutto l'anno.
E quindi la città poteva nascere solo lungo questa linea delle risorgive, con i mattoni del Nord, mangiando i formaggi del Sud, scambiando arnesi e tessuti degli artigiani industriosi con i prodotti agricoli abbondanti dei grandi coltivatori. C'è anche una chiesa, S. Maria della Fontana, costruita su un antico luogo di culto, antecedente all'invasione dei romani; e l'antico luogo di culto è appunto una fontana con tante cannelle: per onorare l'acqua che sgorga dal terreno, prima che diventi palude.
Ma perché non più ad Est o più ad Ovest? Uno studioso tedesco del Novecento, Christaller, ipotizzò la forma di crescita ideale degli insediamenti umani in una pianura perfettamente omogenea, sulla base della semplice esigenza di ridurre i costi di trasporto in un'economia di mercato. Questo porta a due regole: la prima, che le merci più semplici, quotidiane e maggiormente richieste (il pane, ad esempio) tendano ad essere capillarmente diffuse, mentre le merci più rare (e con minore domanda, tipo un paté francese o una scarpa fuori misura) tendano ad essere disponibili solo in alcuni punti, di solito nei centri maggiori. In altre parole, un negozio per chi cerca un prodotto raro, diciamo le scarpe numero cinquanta, sarà verosimilmente uno solo in tutta una regione, ed è più facile che si localizzi nel capoluogo, dove è più visibile, piuttosto che in un paesino. Così, è più facile che un'università sia in città, piuttosto che in un paese (tranne che per gli urbanisti degli anni '60, che teorizzavano le università in aperta campagna, a Gorgonzola – mai funzionato). E che in città ci sia un rivenditore di ricambi minuti per orologi di antiquariato, o che ci sia un'attività innovativa, o una borsa di scambio di merci provenienti da paesi lontani.
La seconda regola dice che per ottimizzare i costi di spostamento dei clienti e quindi per ampliare al massimo il numero dei potenziali compratori nell'area di riferimento, il punto ideale di vendita è al centro.
Sulla base di queste due semplici regole, il risultato dell'incessante attività umana nella pianura ideale dovrebbe essere, secondo Christaller, una forma geometrica per cui la città più grande è al centro della pianura, circondata a corona ma ad una certa distanza dai centri di seconda grandezza, e tutti a loro volta circondati da centri minori, a loro volta circondati da centri più piccoli; le strade, tutte a radiali e anulari.
E se si guarda dall'alto la nostra pianura, non del tutto perfettamente omogenea, ma insomma quasi, il disegno di Christaller è quasi perfettamente realizzato: una grande città in centro, con tutte le funzioni speciali; le altre città, Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia, Novara, Gallarate, anche loro con una loro identità e autonomia, a corona; i centri minori, Rho, Sesto, S. Donato, Corsico, all'intorno; e poi intorno a tutti i centri, i centri più piccoli: Bollate, Novate, Cormano, Bresso, Cusano, Cinisello, Vimodrone, Segrate, Peschiera, e poi i borghi minori, le frazioni, le cascine, eccetera, eccetera.
Perché poi le città nascono per questo: per le attività economiche, commerciali, culturali, istituzionali, produttive: non per viverci. Non credete a quelli che dicono che è la residenza che connota la città (di solito lo dicono perché hanno un terreno dove vogliono costruire). La città è nata per il lavoro; e ci si abita per questo.
Ma questa città in particolare non è nata per “un” lavoro, per un'attività predominante, per un'impresa: è una città in mezzo, ed è fatta per tutti i lavori. Non solo città industriale, come la riteneva qualcuno, ma anche per la finanza, la cultura, le istituzioni, i servizi – e anche le industrie, sono sempre state ben diversificate, medie, grandi, piccole, e poi meccaniche, chimiche, farmaceutiche, eccetera, eccetera. Anzi, è proprio questa possibilità di trovare un po' di tutto, dall'artigiano al professore, dall'esteta al commerciante, a renderla così interessante. Persone diverse si incontrano; se sono lì, è per non perdere tempo, non è che sia un posto così piacevole (anche se è meno brutta di quel che dicono); se sono lì, è perché sono bravi; ed è da questo incontro di persone capaci e indaffarate che possono nascere nuove idee, o quelle cose che sono a metà strada fra industria, arte, scienza, artigianato, commercio... roba tipo il design o la moda, ad esempio, o l'editoria.
Ma questo misto si può vedere anche nelle attività che si svolgono negli edifici: al piano terra ci sono i negozi, al primo piano gli uffici, sopra le abitazioni, in cortile c'è l'officina per le riparazioni o il falegname. E questo misto si vede anche nelle strade: per un tratto ci sono villini, poi edifici a cortina, poi un capannone, e poi una torre residenziale con i giardinetti. Un pezzo è antico, uno dell'Otto
cento, un pezzo moderno – forse non molto bello, ma insomma è un'identità anche questa.
E così, soprattutto nella zona che va dal centro storico alla periferia, o meglio, dalla cerchia dei Bastioni a quella della 90-91 (che è la linea di filobus che gira sull'anulare esterna), ovvero quello che gli operatori immobiliari chiamano il “semicentro”, che è anche la zona più vivace, è tutto un accavallarsi di cose diverse, di epoche diverse, piazzate una a fianco all'altra, una vecchia cascina, una fabbrica, una piazza ottocentesca (magari non finita), un quartiere di edilizia economica popolare ben disposto in modo disassato dalla strada, con le sue brave aree a servizi (generalmente non attuate), un ramo ferroviario non più utilizzato, il portone di ingresso di una villa che oramai è al di là della ferrovia, un tratto di strada che si interrompe dove c'è una casetta che proprio non si è riusciti ad espropriare. Che poi anche la struttura a radiali ed anulari non è poi così perfetta, ad esempio la cerchia dei Navigli che si chiude male in via Pontaccio, quella dei Bastioni che si perde fra Conciliazione e l'Esedra, per non parlare delle radiali del nord interrotte (ma fra Repubblica e Biancamano un varco in più non potevano farlo?), o di casi notori come la Vigevanese che non raggiunge i Bastioni (ma chi ha dimensionato così piccine le vie Dugnani e Modestino?)
E anche andando più fuori, verso viale Lombardia, anche se oramai si è a chilometri da centro, le case sono ben costruite, studiate, le strade belle, ben impostate, con grandi marciapiedi e filari alberati, si vede che allora non si pensava che la distanza dal centro volesse dire periferia; e in fondo i palazzi dell'epoca sono simili a quelli che si trovano dietro Porta Venezia. Forse si pensava veramente di stare costruendo una città nuova, migliore o perlomeno bella almeno quanto quella antica. E se si gira dentro lungo la via Vallazze, certo tutto è un po' più sordido, tutto un po' più affrettato e sporchino, come tutte le strade di comunicazione che portano in città da fuori, come anche in viale Padova e nelle strade attorno; ma se si gira attorno al vecchio Trotter, e poi ci si infila sotto la ferrovia, verso i vecchi borghi, Gorla, Precotto, paralleli a viale Monza; e se si passa dentro lungo la Martesana, con tutti gli orti ordinati lungo la massicciata, quel naviglio che prima è stato via di comunicazione e di trasporto delle merci, poi mezzo di irrigazione dei campi, poi ancora forza motrice per generare energie elettrica per le industrie e adesso pista per lo svago e il tempo libero (e una volta avevo addirittura progettato di fare in bici tutta l’alzaia della Martesana per poi risalire l’Adda, con le sue rocce e le sue rapide, i ponti di ferro, le centrali idroelettriche in mezzo ai boschi, fino a Olginate, con il Medale sullo sfondo, come nella vergine delle rocce; ed arrivare ad arrampicare su in cima al Resegone, tutto in giornata; ma poi l’amico con cui dovevo andare ha litigato con la fidanzata e quindi niente da fare); e se poi si gira lungo i quartieri dietro lo scalo ferroviario: come è ancora bella Milano!

Se si va ad esempio dietro al parco, e si segue la vecchia strada postale che portava un tempo al passo di Gries, e più tardi al Sempione, per andare in Svizzera e in Francia (ma perché passare da Gries, che è più alto, ghiacciato addirittura? Perché è la strada più difendibile da un punto di vista militare, il Sempione, anche se più basso, si presta facilmente ad imboscate – e quando si andava a piedi o con i muli, il dislivello non era così importante, lo erano di più la sicurezza o la lunghezza; solo con il treno il dislivello diventa importante e gli itinerari cambiano, anche per i Giovi è stato così, Turchino e Scoffera erano più importanti - ma poi con i treni ci si è infilati giù nei fondovalli, mentre prima si viaggiava sulle creste, e nei racconti infatti si passava di valle in valle), insomma, se si va lungo la strada per la Francia, si arriva alla Cagnola, antico borgo oramai incuneato fra le case, dove un tempo i viaggiatori provenienti da lontano si riposavano, si pulivano e si cambiavano i vestiti impolverati prima di entrare in città.
Tutto attorno era inedificato per motivi militari (una casa alle spalle del Castello avrebbe potuto servire come base ad un esercito assediante). Non si poteva neanche utilizzare l'area per attività agricola, quindi era tutto un parco per la caccia dei signori; e così adesso è la zona con più edilizia moderna. La zona di caccia si estendeva fino al bosco della Merlata, ai confini con Pero, dove i briganti si nascondevano per attendere i viaggiatori dai passi alpini. C'è ancora un affresco, alla Cascina della Merlata, oramai in rovina, che ricorda le gesta del terribile brigante Legorino (che sarebbe come dire brigante leprottino, forse non era così terribile).
A un certo punto, dopo il Risorgimento, visti gli spazi a disposizione, e la strada in direzione della più evoluta società francese, faro di civiltà, ci si propose di imitare gli Champs Elysées: il castello sarebbe stato il Louvre, la piazza d'armi le Tuileries, il Corso poi giunto al piazzale (che sembra un po' l'Etoile) girerà a sinistra verso il Bois de Boulogne, ovvero il bosco della Merlata senza più briganti: ma poi al termine del viale venne costruito il cimitero (sono aree già comunali, e poi è più pratico, che ce ne facciamo del bois?) e allora addio al sogno della piccola Parigi.
Vicino al cimitero, un po’ discosta dalla strada, c’è la tranquilla Certosa di Garegnano, un tempo al centro di un territorio agricolo ordinato geometricamente dalla centuriatio romana e orientato secondo le linee di pendenza del terreno, per utilizzare il deflusso naturale delle acque per l'irrigazione. Dal borgo di Garegnano (ma ce ne sono due in città) il Petrarca scrisse in una lettera di come il suo soggiorno sia allietato dal suono di chiare fresche e dolci acque che si potevano sentire nei dintorni. Effettivamente, fino a pochi anni fa si poteva vedere vicino al borgo una testa di fontanile: adesso però c'è il terminal di un autotrasportatore.Sempre in zona c'è (o meglio c'era) la grande fabbrica: l'Alfa, che quando funzionava come industria nel piano regolatore aveva destinazione residenziale (per farla andare via) e quando ha iniziato a chiudere, nel piano regolatore l'hanno messa industriale, per farla restare (se ne è andata lo stesso); e ci sono le fabbrichette dell'indotto, della piccola attività mista a residenza che tipicamente va a riempire la maglia del territorio agricolo, soprattutto al di fuori di quelli che allora erano i limiti amministrativi comunali (il piazzale), per non pagare dazio.
I quartieri di edilizia economica e popolare man mano che si esce dalla città si vanno a disporre lungo l'asse eliotermico (che permette la massima insolazione - e quindi la massima salubrità - ad edifici a corpo doppio con possibilità di alloggi monoaffaccio – e quindi un po' tristi), oppure vengono realizzati nelle aree un tempo non utilizzabili, quelle del territorio di caccia dei signori o soggette alle esondazioni del fiume Olona (poi tombinato); e visto poi che il Bois de Boulogne non si era realizzato, si tenta di nuovo, dal piazzale Accursio si sarebbe andati alla montagnetta (fatta con i detriti dei bombardamenti e con gli scavi dei nuovi cantieri) e da lì lungo l'area a verde e servizi, lungamente pensata e progettata, con dibattiti e concorsi, e di cui in definitiva si costruirà solo un centro commerciale.
La Certosa invece viene definitivamente separata dal suo borgo dal terminale autostradale; a mo' di compenso, sopravvive fortemente nella toponomastica di zona (viale Certosa, stazione Certosa, zona speciale Certosa – che è a Musocco, in realtà, al di là della ferrovia. Invece il cimitero, che è vicino alla Certosa, si chiama Musocco). L'Olona invece nella parte a Sud della città prende il nome di “Lambro Meridionale”: sì, perché il suo nome vero era di Lambro Merdario (raccoglieva le fognature), accorciato per decenza sulle carte in Lambro Mer., e poi trasformato in Meridionale.
Ma non è da credere che la sporcizia dei fiumi dispiacesse, anzi la cacca dei cittadini agli agricoltori era utile, sempre per quel famoso discorso delle acque tiepide per avere foraggio (e formaggio) tutto l'anno; tanto è che una volta, dovendo recuperare una roggia inquinata dove volevamo fare un nuovo quartiere residenziale, è saltato fuori che era inutile pensare ad un impianto di depurazione: la fognatura veniva versata dentro apposta in base a una convenzione stipulata nel 1286 - è proprio la data giusta, non è un errore di battitura - con i contadini più a valle (quelli vicino a quell'abbazia costruita con i soldi guadagnati con il mulino che per prima cosa i frati si erano adoperati a costruire); convenzione tuttora valida, che quelli non avevano nessuna intenzione di sciogliere, perché, interpellati, erano tuttora interessati.
Insomma, non si butta via niente. Cacca, acqua, foraggio, formaggio, tutto viene riutilizzato e tutto torna in circolo. Niente rimane uguale a sé stesso, ma in realtà nemmeno niente cambia del tutto, ci sono persistenze, oggetti che resistono come baluardi alle trasformazioni che gli passano sopra, si fanno erodere, magari, ma alla fine è anche la trasformazione che devia. Un po' come il monte S. Primo che ha diviso i due rami del lago di Como: adesso è un innocuo panettone, ma all'inizio era un gigante e in fondo è il ghiacciaio che ha dovuto cambiare strada. E quando una cosa è stata, rimane sempre una traccia.

E in fondo di tutto qualcosa rimane. Ma soprattutto, tutto è un prodotto collettivo. Si inizia con un'intenzione, si finisce in un altro modo. I progetti durano dieci anni e più, e dopo cinque si molla, e quindi o si inizia (e qualcun altro finisce) o si finisce (quello che ha iniziato un altro). Nessuno può dire: questo l'ho fatto io, io da solo (se non cose piccolissime).
Certo alla fine il risultato è un po' caotico. Ma nulla di ridondante, nulla di eccessivo o monumentale, tutto molto sobrio, e non solo per quieto buon senso borghese, come qualcuno stoltamente dice: c'è proprio una filosofia, che viene dicono dal giansenismo e dal cattolicesimo prealpino (ma secondo me dalla vicinanza con le montagne), fatta di non mettersi in mostra, di non creare invidia e stupidi dissensi, tutto in modo un po' scontroso – e ci sono tante espressioni del luogo, tipo “mi raccomando, fa' il bravo”, detto a qualcuno che nel passato ne ha combinate grosse, o “a buon rendere”, detto a qualcuno che ti ha fatto un favore, che da fuori vengono fraintese, sembrano frutto di diffidenza e di calcolo, ma invece sono testimonianza di un burbero affetto e di un'assunzione esplicita di responsabilità sociale. “A buon rendere” vuol dire: anch'io mi comporterò così, con te, o con altri, quando ne avrò occasione. Non cadrò nel meccanismo del rancore verso chi ci fa del bene, lo conosco e non sarò ingrato; non per calcolo, ma neanche con volubilità. E quindi se si possiede qualcosa di bello o di eccezionale, si tende a nasconderlo nei cortili o nei grandi giardini, all'interno, negli spazi privati, che non lo veda nessuno.
Qui vicino, ad esempio, un'anonima facciata, semplice semplice, giallina giallina, nasconde all'interno un palazzo barocco, dove la scala monumentale è stata costruita attorno ad un'enorme testa di elefante africano imbalsamato, portato qui nel Seicento. E' bastato entrare un paio di volte a vederlo, che il portinaio ha vietato l'accesso, e il proprietario ha pensato bene di smontarlo e di portarsi via nottetempo la testa di elefante, mica che se ne accorgesse la Soprintendenza - e magari glielo vincolasse. Non molto giansenista, in verità.
Anche in centro, quando si vedono queste case diroccate, abbandonate: perché nessuno ci abita? Perché dovevano farci una strada, poi un piano per edilizia popolare, poi si è scoperto che c'è un vincolo della soprintendenza, e quindi la proprietà ha ceduto alle banche, ma tutto è rimasto così, perché è troppo difficile fare la variante al piano regolatore. Anche la casa dove abitiamo noi è così, altrimenti non avremmo potuto permettercela, e anche la gente che abita all'intorno non è poi così ricca, solo abita in mezzo a un progetto interrotto.
Ma complessivamente, quello che noi vediamo è solo quello che resta. Tanto è stato spazzato via, tanto non è neanche iniziato. Tante cose ci sono state, ma non si sono preoccupate di consolidarsi in un oggetto fisico, in qualcosa che resta; e invece basta che un assessore ottuso si impunti, ed ecco un obbrobrio che sfiderà i secoli.
Ciò che è scomparso, è vero, per il solo fatto di essere venuto meno, passa per inadeguato; e invece chi dura una sua qualche buona ragione in fondo deve averla avuta. Come se le culture assassine fossero meglio di quelle assassinate. Come se la malattia - che resta - fosse meglio del corpo sano - che se ne va. E quindi non è detto che ciò che resta sia la cosa migliore.

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